Παν είναι αριθμός, ”tutto è numero” era il motto dei Pitagorici. E per numeri si intendevano quelli interi, i numeri naturali, quelli che servono per contare, per mettere in ordine.

Disintossicato dal Continuo e dall'Infinito, lasciatemi alle spalle le teorie di Cantor e la filosofia di Parmenide, voglio assaporare il Discreto, godere del Finito. Voglio elencare, numerare, mettere in ordine.

E mettere le cose in rapporto con i numeri finalmente mi da pace.

Pagine

sabato 17 aprile 2010

Lettera a Parmenide



Caro Parmenide

Lo so che la storia della radice di due, il rapporto tra lato del quadrato e la sua diagonale, era una bella rogna. I Pitagorici avevano dimostrato che non fosse esprimibile come rapporto di due numeri interi. Questo era del tutto inaspettato, contrario al senso comune e ha creato un bel casino nella concezione del mondo dei tuoi conterranei. Effettivamente a una prima analisi sembrava che intuizione e realtà non fossero sempre in sintonia, e che non tutte le cose “sono” come “sembrano”. Il fatto che la matematica, che è basata sulla ragione e sulla logica, non sia intuitiva, è qualcosa che non deve sconvolgerti più di tanto. Dopo di te negli ultimi 2000 anni è successo un sacco di volte che la matematica ha prodotto risultati inaspettati e assolutamente anti intuitivi. Basta che pensi ai numeri immaginari basati sulla radice di -1 oppure agli infiniti di ordine superiore di Cantor. Il grande John (Janos) von Neuman, diceva “In matematica non si capiscono le cose, semplicemente ci si abitua a esse”. Oggi ogni alunno delle scuole elementari accetta senza problemi che la radice di due ha infinite cifre dopo la virgola. E la cosa non lo sconvolge più di tanto.
Secondo me hai un po’ esagerato o forse ti sei compiaciuto a farlo. C’era proprio bisogno di dividere il mondo in due? Quello delle apparenze (doxa) e quello della verità/ragione (aletheia). Solo perchè alcuni ragionamenti sembrano dare risultati paradossali non c’è bisogno di negare i dati empirici. Buttare a mare l’esperienza dei sensi ogni qual volta la logica apparentemente la contraddice si rivela spesso atteggiamento affrettato. Può succedere che la nostra esperienza non sia sempre descrivibile in una particolare situazione logica ma appena si allargano gli orizzonti delle teorie, l’esperienza è sempre ritornata in sintonia con la tua “aletheia”. E’ poi caro Parmenide è facile tirare in ballo un altro mondo per spiegare cose che apparentemente nel “nostro” sono a prima vista contraddittorie.
Poi, scusami ma devo dirtelo, il tuo argomento ontologico è un po’ un gioco di parole. Dici che ”l’essere è e il non essere non è” per poi concludere che quindi il “non essere” non esiste. Ed essendo il “non essere” equivalente al vuoto quest’ultimo, il vuoto, non esiste. Non esistendo il vuoto lo spazio è pieno e quindi il moto è impossibile, non esiste. Tutto è fermo nulla si muove.
Potrei ribattere: E l’esperienza ? Io mi muovo quando voglio, anche tu, o no ?
Scusa dimenticavo, secondo te è solo un’illusione, apparenza. Conta solo la ragione e quella secondo te ci dice che non ci possiamo muovere.
Ma proprio qui sbagli. L’argomento ontologico poi tanto logico non è. Il problema logico nasce dalla sostantivazione dei verbi. Formalmente è semplice: basta aggiungere l’articolo determinativo all’infinito del verbo in questione. Nessuno ci dice, però, che questi sostantivi eseguono l’azione del verbo alla loro base. Forse ha senso dire che “il pensare pensa” ?
Chi ci dice che “l’essere è” e a maggior ragione che “il non essere non è”. E solamente un gioco di parole che tra l’altro non funziona in tutte le lingue: in inglese giustamente “the to be is” non ha senso.
Fortunati gli inglesi, che così si sono risparmiati il delirio ontologico continentale sfociato in quella troiata dell’idealismo kantiano. La loro lingua gli ha lasciati con i piedi per terra e così hanno potuto sviluppare un sano e pragmatico empirismo.

Caro Parmenide la ragione non nega l’esperienza e quindi non è necessario creare un altro mondo in contrapposizione a quello empirico. E poi per quale motivo bisogna creare un dualismo quando se ne può fare a meno? “Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem” dirà Guglielmo da Occam, guarda caso anche lui anglosassone.

Logicamente ed empiricamente tuo

Federico

Nessun commento:

Posta un commento