Παν είναι αριθμός, ”tutto è numero” era il motto dei Pitagorici. E per numeri si intendevano quelli interi, i numeri naturali, quelli che servono per contare, per mettere in ordine.

Disintossicato dal Continuo e dall'Infinito, lasciatemi alle spalle le teorie di Cantor e la filosofia di Parmenide, voglio assaporare il Discreto, godere del Finito. Voglio elencare, numerare, mettere in ordine.

E mettere le cose in rapporto con i numeri finalmente mi da pace.

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domenica 15 maggio 2011

Il piacere del contare


Nel giugno 2008 ho partecipato ad un corso tenuto dal Prof Paolo Zellini, professore di Analisi Numerica presso l’Università di Roma Tor Vergata e autore del famoso “Breve storia del infinito” di cui Italo Calvino disse: “Tra i libri italiani degli ultimi anni quello che ho più letto, riletto e meditato è la Breve storia dell'infinito di Paolo Zellini”

 

Il corso dal titolo "Infinito e finito: dalla crisi dei fondamenti alla scienza del calcolo" tracciava il precorso del concetto di infinito fino alla scoperta delle antinomie nate dal tentativo di trovare una sistemazione della teoria degli insiemi che tenesse conto anche degli insiemi infiniti e che agli inizi del 900 avevano messo in crisi la matematica. Nel proseguo il corso poi, trattava le questioni del calcolo finito, quello basato sui numeri interi, quello per intenderci usato oggi dai calcolatori.

 

Fu durante il corso che definitamente capì che il concetto di infinito attuale era intrinsecamente incoerente e che l’aritmetica dei numeri interi era la sola matematica coerente.

 

A dire il vero Zellini, non era proprio di quest’opinione, anzi vedeva in certi problemi numerici, come l’inversione delle matrici mal condizionate, un limite teorico del calcolo digitale. Effettivamente un problema numerico non poteva sempre essere risolto con una precisone prestabilita, anche aumentato in modo appropriato il numero delle cifre usate per rappresentare i numeri all’interno dell’elaboratore elettronico e/o aumentando i cicli di iterazione. Infatti all'aumentare del numero di cifre usato per rappresentare i numeri all'interno di un elaboratore, la precisione del risultato certamente non peggiora ma non si può essere certi che converga verso la precisone desiderata. Una situazione simile si ha nelle serie di somme infinite convergenti. Infatti anche se alla somma si aggiungono infiniti contributi di volta in volta più piccoli questa può converge ad un numero finito e quindi fissato un limite qualunque non si può affermate che la serie delle somme infinite lo possa raggiungere.

 

In realtà durante il corso non capì se Paolo Zellini favorisse la matematica del continuo o quella del discreto. Da vero intellettuale forse non voleva prendere posizione.

 

Io invece, che avevo appena letto “l’illusione di Dio” di David Dawkins, avevo accolto l’appello dell’autore agli intellettuali di smetterla di definirsi, al più, agnostici (coloro che non sanno) o di essere riluttanti a prendere posizioni più marcate quando è possibile applicare il Rasoio di Occam, il principio metodologico che suggerisce, al fine di decidere tra più ipotesi possibili, di scegliere quella più semplice. Infatti i problemi logici e le antinomie conseguenti all’introduzione di insiemi con infiniti elementi erano a mio avviso molto più gravi che non i problemi di convergenza di certi algoritmi numerici.

 

Decisi quindi di prendere parte in maniera definitiva per il discreto, per il finito lasciandomi alle spalle “il paradiso che Cantor ha costruito per noi", come la aveva chiamato David Hilbert,

 

Ma se Paolo Zellini da un lato mi aveva privato del piacere delle elucubrazioni sull’infinito, dall’altro, aveva in me risvegliato l’interesse della matematica del finito che in fondo era più in sintonia con il resto della mia “Weltanschaung”. Mi ero scrollato di dosso gli ultimi rimasugli idealisti abbracciando in pieno la filosofia atomista. Avevo finalmente compreso a fondo la lezione del grande Epicuro.

 

Durante il corso Paolo Zellini ci raccontò di un passo dell’Odissea di Omero dove si associava la numerazione alla tranquillità del sonno. Tornato a casa, dopo il corso, mi misi a cercare e lo trovai nel IV libro dell’Odissea:

 

Il IV libro racconta di Telemaco che si era recato a Sparta da Menelao per chiedergli notizie del padre Ulisse. Menelao gli risponde raccontando un episodio del suo νόστος, il viaggio di ritorno da Troia, quando era finito in Egitto sull’isola di Faro, da dove non riusciva di ripartire a causa delle avverse condizioni del mare e dei venti.

Errando per l’isola Menelao incontrò Eidiotea figlia dell’antico dio marino Proteo, che vedendolo disperato decise di aiutarlo. Eidodea gli svelò come catturare nel sonno il padre Proteo, che ogni giorno si addormentava nella sua grotta in mezzo alle sue foche dopo avere accuratamente contate. Proteo una volta catturato gli avrebbe indicato la via per tornare a Sparta e gli avrebbe anche raccontato quello che nel frattempo era successo nella sua reggia.

Su indicazione di Eidotea Menelao e i suoi compagni si travestirono coprendosi con pelli di foca eludendo così i controlli di Proteo riuscendo ad entrare nella grotta. Proteo appena addormentato viene sopraffatto da Menelao ed i suoi compagni rivelando a Menelao il destino suo e di altri eroi achei tra i quali Aiace e Odisseo.

 

Odissea IV libro versi 450-453

 

ἔνδιος δ' ὁ γέρων ἦλθ' ἐξ ἁλός, εὗρε δὲ φώκας

ζατρεφέας, πάσας δ' ἄρ' ἐπῴχετο, λέκτο δ' αριθμόν.

ἐν δ' ἡμέας πρώτους λέγε κήτεσιν, οὐδέ τι θυμῷ

ὠΐσθη δόλον εἶναι· ἔπειτα δὲ λέκτο καὶ αὐτός.

 

 

In seguito gli stessi versi nella bellissima traduzione dell’Odissea di Ippolito Pindemonte (IV 565-569)

 

Uscio sul mezzogiorno il gran vegliardo

E trovò foche corpulente e grasse,

Che attento annoverò. Contò noi prima,

Nè di frode parea nutrir sospetto.

Ciò fatto, ei pur nella sua grotta giacque.

 

Ma soffermiamoci sull’ultima parte del secondo verso: λέκτο δ' αριθμόν. Qui compare la parola λέκτο che è, nella forma poetica, l’aoristo indicativo terza persona singolare di λέγο.  λέγο ha due significati ( raccogliere, enumerare) oppure (dire, parlare). Infatti λόγος  che ha la stessa radice vuol dire il computare, il calcolare, la ragione, il rapporto oppure anche parola, discorso. Questo doppio significato ha portato un po’ di confusione nelle traduzioni dei vangeli dove la parola λόγος imperversa e non si sa se tradurla come “ragione” o “parola” (di Dio). In questo caso non c’è dubbio l’accostamento con αριθμόν, (numero) indica l’azione del contare.

 

Nell’ultimo verso ritroviamo di nuovo λέκτο, ma questa volta si tratta del aoristo indicativo terza persona singolare di λέχο giacere, dormire (la stessa radice si ritrova nel latino lectus da cui l’italiano letto, nel gotico ligan da cui il tedesco liegen)

 

E’ un caso? oppure Omero ha voluto creare un collegamento tra i due concetti.  I due λέκτο si trovano inoltre accentati nella stessa posizione nella struttura ritmica della metrica dell’esametro, esaltandone cosi la corrispondenza.

Ma indipendentemente dal fatto che Omero abbia voluto, in modo così sottile, collegare coscientemente i due concetti o che si tratti di un’interpretazione a posteriori dell’esegesi omerica in nessun modo si può negare l’incredibile bellezza e l’armonia di questi versi.  

Contare, mettere in relazione, mettere in ordine, elencare, strutturare, ragionare o per dirlo in termini matematici: mettere in corrispondenza biunivoca con l’insieme dei numeri naturali da pace.

 

Mi piace pensare che questo sia dovuto al fatto che contando, ci si collega, attraverso il processo di corrispondenza con l’insieme dei numeri naturali, all’essenza stessa dell’essere, all’αρχή pitagorico: il numero. E, squarciato per un attimo il velo che lo nasconde, l’anima, contemplando, appagata si rilassa:

 

λέκτο δ' αριθμόν… ἔπειτα δὲ λέκτο καὶ αὐτός

 

Contare, poi giacere, dormire