Παν είναι αριθμός, ”tutto è numero” era il motto dei Pitagorici. E per numeri si intendevano quelli interi, i numeri naturali, quelli che servono per contare, per mettere in ordine.

Disintossicato dal Continuo e dall'Infinito, lasciatemi alle spalle le teorie di Cantor e la filosofia di Parmenide, voglio assaporare il Discreto, godere del Finito. Voglio elencare, numerare, mettere in ordine.

E mettere le cose in rapporto con i numeri finalmente mi da pace.

Pagine

lunedì 6 ottobre 2014

In architettura lo stile non esiste


Ogni anno, a febbraio, Arrigo e Ina Cipriani organizzano un piacevolissimo cenacolo nella loro meravigliosa estancia “Gin Tonic” a la Barra nelle vicinanze di Punta del Este in Uruguay.

Viziati da Arrigo, a mo’ di seguaci epicurei ci trastulliamo nella cura dell’ozio tra deliziosi convivi e abbondanti libagioni a base di Martini e Whiskey saur. L’abilità di Arrigo ed Ina nella scelta degli ospiti innesca complesse interazioni sociali che sfociano spesso e volentieri in piacevoli e dotte discussioni sui più svariati argomenti.

La dinamica di gruppo è fluidificata dalla costante attenzione di Arrigo che, elevata l’ospitalità a scienza esatta, ne studia e ne enuncia i principi, rendendoci partecipi, in qualità di fortunate cavie, delle sue intuizioni ed esperimenti.

Disintossicati dal quotidiano e finalmente rilassati nel corpo e nella mente, spesso in occasione dei canonici momenti di aggregazione come le cene e i pranzi, si creano situazioni di forte risonanza mentale tra i partecipanti, per cui anche quelli che solitamente preferiscono mantenere le proprie intime elucubrazioni protette nel profondo dell’io, fanno “outing” sbilanciandosi in affermazioni, non più filtrate dal comodo agnosticismo culturale, e di cui però si intuisce la profonda elaborazione interiore.

Sono momenti meravigliosi di cui sarò eternamente grato a Ina e Arrigo.

Uno di questi momenti mi è rimasto particolarmente impresso, forse a causa del particolare contrasto tra la dirompenza dell’affermazione e la particolare riservatezza e il soppesato equilibrio di chi la affermava: quando, secondo me catalizzato dai meravigliosi tagliolini al ragù di Arrigo, Paolo Morachiello, che ha insegnato per una vita storia dell’architettura all’Università di Venezia, persona schiva ed equilibrata, affermò in un modo che non lasciava alcun dubbio sulla personale convinzione di quanto andava dicendo, che in architettura lo "stile" non esiste.

Fui colpito da quell’affermazione così forte, enunciata da uno che per tutta la sua vita aveva ordinato e catalogato i modi in cui l’umanità organizzava lo spazio in cui viveva: Lo “stile” non esiste! Ogni edificio è unico, al massimo si può affermare che chi lo aveva progettato lo aveva in parte copiato da un altro. Ora il concetto di "stile" altro non è che il tentativo di unificare tanti edifici particolari in un concetto universale. Immagino che Paolo volesse affermare che in architettura, come in molte altre scienze non esatte, affermazioni assolute non sono possibili e i confini tra concetti universali sono evanescenti. Non so se la sua affermazione volesse mettere in dubbio l’esistenza stessa dei concetti universali.

La sua era probabilmente una negazione di esistenza “debole”, che mette in luce le difficoltà cui si va incontro quando si vogliono definire i confini di un concetto, ma non credo che volesse mettere in discussione la intima essenza del concetto stesso. Ma il contrasto tra la natura mite di chi affermava e la forza dell’affermazione mi fece prendere in considerazione anche la versione in cui Paolo invece avesse voluto affermare una negazione “forte” dell’esistenza dei concetti, una negazione della natura autonoma dell’idea stessa.

La quaestio de universalibus, cioè se i concetti universali “esistono” oppure sono solamente costrutti ausiliari soggettivi che possono essere ridotti al mero nome, al solo flatus vocis, aveva permeato tutta la storia della filosofia. Già la filosofia greca aveva con Platone introdotto la dicotomia tra idee e realtà, affermando che il mondo “vero” era quello delle idee e dei concetti e che la realtà altro non era che una, non meglio definita, “proiezione” di quest’ultimi.

In seguito la Scolastica aveva discusso della realtà delle idee, partendo dai concetti aristotelici di sostanza e accidente, nel tentativo di ovviare alle dicotomie dell’idealismo platonico. La questione restò irrisolta e il dualismo tra la realtà e le idee continuò a permeare la storia della filosofia riaffiorando nella differenza tra la res estensa e la res cogitants di Cartesio così come nel dualismo tra noumeno e fenomeno nella gnoseologia kantiana.

Negare gli universali è operazione ardua: essi permeano il nostro pensare e in qualche modo siamo portati a dire che riconosciamo un oggetto poiché lo confrontiamo nella nostra mente con qualcosa che ha tutte le principali proprietà dell’oggetto stesso, cioè con l’oggetto idealizzato. Per raccontarla come Platone nel mito della caverna, riconosciamo il cavallo perché esso altro non è che un’ombra della cavallinità, idea che risiede nell’iperuranio, proiettata sul muro della realtà. Oppure, seguendo il ragionamento di Kant nella Critica della ragion pura, riconosciamo il cavallo perché la nostra mente osservando il cavallo coglie, in un processo di sintesi tra materia e forma razionale innata, das Ding an sich, la cosa in sè, che è inconoscibile e indescrivibile, base immutabile della realtà fenomenica e che può essere conosciuta solo da un'eventuale intelligenza divina superiore.

Che Paolo, nella versione “forte” della sua affermazione, dopo aver analizzato a fondo il caso particolare degli stili degli edifici, avesse intuito la soluzione al problema? Che avesse trovato il modo di negare in modo “forte” l’esistenza delle idee come concetti di "natura" diversa alla realtà? La questione non è da poco: infatti nel caso si accettasse questa "natura" diversa, finiremmo per ingarbugliarci in un tortuoso labirinto concettuale. La "natura" delle idee, qualora non fosse della stessa "natura" della realtà, di che "natura" sarebbe? E da qui è breve il passo verso concetti incasinati come liperuranio platonico oppure la mente di Dio.

Ho sempre considerato l’idealismo, che afferma la natura distinta delle idee, come la più grande iattura del pensiero occidentale. In nome delle idee (entità universali e incorruttibili a causa della loro diversa natura) sono stati commessi i più atroci crimini. Questa è una delle ragioni per la quale mi dichiaro materialista, seguace di Democrito, Epicuro e Lucrezio, ma, a dire il vero, sempre con un certo distacco agnostico, tipico degli uomini di scienza, per i quali in fondo ogni affermazione “forte” va evitata.

Così mi piace pensare che Paolo quel giorno, avviluppato e un po’ stordito dal piacere dei sensi e dal prolungato ozio, abbia invece intravisto la soluzione all’annosa questione in maniera talmente chiara e inequivocabile da fargli affermare “fortemente”, vincendo la sua innata prudenza e riservatezza, che ad esistere è solo la materia.


Punta del Este il 17 febbraio 2013