Carissimo Epicuro
Scusa
se ti scrivo solo adesso, ma questa la consideravo una lettera importante. Sei
il mio filosofo preferito e mi considero un tuo seguace un “Epicuri de grege
porcum” come si definì Orazio scrivendo
al poeta Tibullo[1]. Ma prima
di confrontarmi con te dovevo mettere a posto alcuni aspetti della mia “Weltanschauung”.
A
essere sincero in un primo momento, quando in prima liceo incontrai la tua filosofia,
non mi avevi un granché colpito. I motivi erano molteplici. Innanzitutto perché
filosofo dell’Ellenismo, eri relegato alla fine del testo di storia della filosofia,
trattato in poche pagine, dopo interi capitoli dedicati a Platone e Aristotele.
La posizione nel libro di testo rispecchiava inoltre anche il periodo dell’anno
scolastico durante il quale veniva affrontato il tuo pensiero. A ridosso della
fine dell’anno scolastico, quando i giochi per la pagella erano ormai fatti, il
mio interesse per la filosofia, messo tra l’altro a dura prova dal pensiero di Aristotele
e dall’estate incombente non era certamente ai massimi livelli. Inoltre la
nostra professoressa di filosofia, forse anche lei stufa di una classe
indisciplinata, ti aveva abbastanza sorvolato. Mi eri comunque risultato
simpatico: Il tuo concetto di amicizia, la ricerca del piacere e il fatto che
la chiesa ti aveva osteggiato mi avevano colpito, ma in fondo non ti consideravo altro che un’espressione
della decadenza della civiltà greca nel periodo dell’Ellenismo.
Ti ho
incontrato nuovamente nel corso dell’ultimo anno di liceo durante le lezioni di
letteratura greca. Al mio professore di greco e latino, che si chiamava Giorgio
Daprà, piaceva, partendo dalla letteratura, spaziare nel campo della filosofia e
della scienza e verso la fine dell’anno scolastico affrontò una delle controversie
più importanti della filosofia: il problema del libero arbitrio, la
contrapposizione tra libertà e necessità. Lo fece in maniera subdola
ingaggiando con ognuno dei suoi allievi una discussione sulla coerenza
concettuale delle filosofie correnti. Ognuno di noi doveva scegliere il suo
filosofo preferito, prepararsi su come questo aveva affrontato la suddetta controversia
(e non solo) e quindi durante la lezione difenderne le posizioni. Uno dopo
l’altro smontò, certo anche grazie alla sua esperienza e capacità dialettica,
filosofi come Cartesio, Kant, Kierkegaard e infine, con grande dispiacere della
grande parte dei miei compagni di classe, Friedrich Nietzsche. Io ero l’ultimo
ed ero sicuro di uscirne vincente grazie al mio assoluto credo nel materialismo
dialettico. Fu un disastro, ricordo la difficoltà di salvare il libero arbitrio
e la necessità di mutare il mondo in un contesto deterministico. Mi è rimasta
impressa la sensazione di impotenza logica difronte alle sue terribili
obiezioni. Alla fine della discussione completamente disorientato chiesi: ma
professore ma allora qual è una filosofia coerente che resiste a tutte queste
obiezioni? Il professore dopo aver
consultato il suo orologio rimandò la risposta alla prossima lezione. Mi
ricordo come se fosse ieri quel giorno, quando la mattina andando a scuola non
vedevo l’ora di sentire la rivelazione da parte del professor Daprà. Ho ancora davanti
ai miei occhi il professore, con la camicia come al solito senza cravatta, ma allacciata
anche nell'ultimo bottone, sedersi alla cattedra e dopo aver compilato con calma
il registro ed aver sistemato gli inseparabili libri sulla scrivania, alzare gli
occhi, stupito dall’assoluto ed inusuale silenzio che aleggiava in classe,
dire: Oggi vi parlerò di Epicuro.
Restammo
profondamente delusi. Ci aspettavamo un filosofo moderno, non so Sartre oppure
Popper. Quale contributo poteva dare un filosofo vissuto nell’Ellenismo, tra
l’altro con fama di gozzovigliatore, alle nostre aspettative esistenziali.
Daprà
ci riespose, rinfrescando quanto avevamo studiato in prima liceo, la tua
filosofia:
La
realtà è composta da atomi e vuoto, i primi lanciati su traiettorie deterministiche
che ogni tanto erano deviate dalla parenclisi[2] il “movimentum
ad latum” che Lucrezio, tuo seguace e divulgatore, chiamerà “clinamen”. Il mondo era soggetto a leggi deterministiche,
i fenomeni naturali potevano essere spiegati senza fare ricorso al
sovrannaturale, e il libero arbitrio era reso possibile da un’indeterminazione
casuale che era intrinseca al movimento altrimenti rettilineo ed equiveloce
degli atomi. Niente dualismo
pensiero-materia. Il mondo era quello che percepiamo con i sensi. Solamente ed esclusivamente come appariva: pura "doxa". Quindi niente "aletheia" eleatica, niente "episteme" platonica, niente "res cogitans" cartesiana, niente "noumeno" kantiano, niente che vada oltre la sensazione
sensoriale e quindi niente entità sovrannaturali, niente dio. A dire il vero
gli dei non erano completamente esclusi ma erano relegati negli "intermundia" a
occuparsi dei fatti loro, incuranti degli uomini e del loro destini. Destini che potevano quindi evolvere liberamente senza imbarazzare le capacita di preveggenza di
esseri onniscienti[3].
Inoltre
niente mondi sovrannaturali, niente vita dopo la morte e quindi niente paura
della morte. L’etica non era basata su concetto delle punizioni o dei benefici
divini[4], ma
sulla necessità di sfuggire al dolore, sulla ricerca del piacere. Il piacere
non era però qualcosa che andava continuamente alimentato ma, proprio perché inteso
come privazione del dolore, non poteva aumentare d’intensità oltre ad un certo punto[5]. Raggiunta
l’atarassia “l’assenza di agitazione” attraverso il tetrafarmaco, che permette
di vincere la paura degli dei, della morte, della mancanza del piacere e del
dolore, si raggiunge la salute dell'anima non più costretta ad un'affannosa
ricerca della felicità.
In
seguito, ormai studente universitario, comprai la raccolta delle tue opere in un’edizione
a cura di Graziano Arrighetti edita da Giulio Enaudi. Ho letto e riletto la
lettera a Erodoto, quella a Pitocle e quella a Meneceo, le Massime capitali, le
Sentenze Vaticane. Ho seguito i tuoi insegnamenti, convinto assertore
dell’atomismo e delle sue conseguenze etiche e morali. Ho vissuto nascostamente,
evitando la politica e fondando sull’amicizia e sulla giustizia, intesa come
sistema di regole vantaggiose per i rapporti sociali, le basi etiche del mio
comportamento.
Ma
c’era un aspetto della tua filosofia che mi lasciava insoddisfatto. Riguardava
lo spazio in cui si muovevano gli atomi: Questo era secondo te infinito in
estensione e durata. Ma la contrapposizione tra la natura discreta e quindi
finita degli atomi e la natura continua ed infinita dello spazio mi disturbava.
A dire il vero, rispetto agli atomisti più antichi avevi fatto un uso più cauto dell’infinito. Infatti, secondo Democrito gli atomi erano
d’infinite tipologie[6]. Tu
avevi capito che per generare la moltitudine delle cose non erano necessari
altrettanti elementi primordiali. Il tuo seguace Lucrezio porterà come esempio
le lettere dell’alfabeto, che anche se finite, possono generare innumerevoli
parole.
In
un primo momento il tuo ragionamento a favore dell’estensione infinita sia
temporale che spaziale dello spazio mi era parso ineccepibile. Avevi applicato
il ragionamento ontologico di Parmenide sull’essere al tutto:
Il
tutto sempre fu com’è ora, e sempre sarà, poiché nulla esiste in cui possa
tramutarsi, né oltre il tutto non vi è nulla che penetrandovi possa produrre
mutazione
[Epistula ad Herodotum 39,2]
Il tutto
è l’essere, il non essere non è, e quindi nulla è al di fuori del tutto. Ne
consegue l’impossibilità teorica di un inizio e di una fine e l’immutabilità
del tutto.
Parmenide
applicando lo stesso ragionamento all’essere aveva negato il vuoto e quindi il
movimento. Ma non era proprio partendo dalla confutazione sensoriale della non
esistenza del movimento che avevi impostato la teoria atomistica?[7]. Non è
contraddittorio, caro maestro, da un lato usare un ragionamento per postulare l’infinità
del tutto e allo stesso tempo confutare le conseguenze dello stesso
ragionamento sull’essere. Non sono poi l’essere e il tutto, rispetto al
ragionamento ontologico, equivalenti?
La
scuola eleatica, aveva confutato l’esistenza del movimento, relegandolo a pura
apparenza e considerandolo fallace sensazione provenienti dai sensi. Inoltre Zenone di Elea, allievo di Parmenide,
per rafforzare il ragionamento sull’essere di Parmenide, che negava il
movimento, aveva costruito una serie di esperimenti
mentali che portavano a delle situazioni paradossali e che contraddicevano il
concetto di movimento. Il più famoso, quello di Achille e la tartaruga, afferma
che Achille, pur correndo più velocemente della tartaruga, non la raggiungerà
mai, in quanto dovrà in un certo istante raggiungere la posizione in cui la
tartaruga si trovava quando era partito[8]. Nel
frattempo la tartaruga si era spostata in una nuova posizione e in un secondo
istante Achille avrebbe dovuto raggiungere anche quel punto e così via
all’infinito. Il paradosso presuppone che lo spazio e il tempo siano divisibili
all’infinito e può essere formalmente risolto ricorrendo alla moderna analisi
matematica applicando le proprietà delle serie infinite convergenti. La
soluzione non lascia completamente soddisfatti e una moltitudine di matematici
e filosofi continua a cercare soluzioni più convincenti. Ancora recentemente è
apparsa su Le Scienze la notizia di
una "definitiva" soluzione dei paradossi grazie a "caratteristiche fondamentali" dell’analisi non-standard[9].
I problemi legati al concetto di divisibilità infinita dello spazio e del
tempo e le antinomie conseguenti sono state in fondo tra le motivazioni preponderanti
dello sviluppo dell’atomismo. Il concetto di a-tomo (l’elemento indivisibile)
nasceva proprio per ovviare alle contraddizioni prodotte dalla filosofia eleatica
tra il mondo della ragione (aletheia) e mondo della percezione (doxa). E anche tu,
caro Epicuro, in fondo hai risolto la questione dell’immutabilità dell’essere
in maniera pragmatica al modo del cinico Diogene di Sinope che per confutare le
tesi di Zenone contro l'esistenza del movimento si sarebbe semplicemente
alzato, e messo a camminare (solvitur ambulando!)[10]. Anche
tu, caro Epicuro, affermi che il vuoto esiste, a dispetto delle elucubrazioni di Parmenide, perché
senza vuoto il movimento non è possibile. Il movimento fa parte della nostra
esperienza quotidiana e quindi il vuoto esiste. Ora proprio in virtù del
principio della supremazia della doxa sull’aletheia che la soluzione del
paradosso di Zenone, attraverso l’applicazione dei metodi dell’analisi
matematica, ci deve lasciare insoddisfatti. Infatti, il concetto della retta
geometrica divisibile all’infinito attraverso il processo della dicotomia è un
costrutto puramente teorico. Applicare questo concetto alla retta temporale è ancora
più arbitrario. Il tempo è da noi percepito come successione di istanti
ordinati, dove per ogni istante esiste un istante successivo ed uno precedente.
Questo non vale nello spazio, dove per ogni punto della retta è possibile una
volta definito un punto vicino, trovarne un altro ancora più vicino. Del resto,
caro Epicuro, anche Emmanuel Kant considera il tempo una grandezza discreta alla
base del processo di numerazione e quindi alla base dell’aritmetica in
contrapposizione allo spazio, grandezza continua e quindi fondamento della
geometria. Se non accettiamo la continuità del tempo, ma consideriamo
quest’ultimo una successione discreta d’istanti, la distanza tra questi non può
essere ridotta a piacere. Ma la somma infinita di eventi temporali finiti, la cui diminuzione
in estensione è limitata, è infinita e quindi Achille non riuscirebbe mai a
raggiungere la tartaruga. Caro Epicuro, è evidente che Achille raggiungerà la
tartaruga e che quindi se consideriamo la retta temporale non divisibile
all’infinito né segue che anche la retta spaziale deve possedere la stessa
proprietà. Infatti, affinché il processo temporale non duri all’infinito, è
necessario che la dicotomia spaziale abbia fine. Quindi, al più tardi, quando Achille si
avvicina alla tartaruga per meno di una lunghezza “atomica” (nel senso di non
più divisibile) il processo dicotomico si interrompe per raggiunto limite[11]. Quindi
non solo la materia ha nell’atomo il suo elemento primordiale indivisibile, ma
anche lo spazio e il tempo non sono divisibili all’infinito[12]
Caro
Epicuro, credo che l’atomismo non sia una caratteristica della sola materia
ma che anche lo spazio ed il tempo non siano divisibili all’infinito. Del
resto permettimi di dire che questa soluzione è più elegante della tua poiché materia, spazio
e tempo hanno una struttura equivalente e questo permette di risolvere non
poche questioni. Ho cercato di convincerti solo con considerazioni che potevano
essere fatte anche ai tuoi tempi senza tirare in ballo le moderne teorie come la
meccanica quantistica che si fonda proprio sul concetto di “quanto” e che ritiene
che la natura dell’essere sia discreta e non continua.
A questo punto affrontiamo l’ultima questione: Il concetto di spazio infinito, senza limite, nel quale si muovono gli atomi e nel quale qualunque grandezza può essere aumentata a piacere, incrementata all’infinito. Concorderai che uno spazio che possa essere aumentato a piacere, quando invece non può essere ridotto indefinitamente, presenta una certa asimmetria e che quest’asimmetria da un certo fastidio.
A questo punto affrontiamo l’ultima questione: Il concetto di spazio infinito, senza limite, nel quale si muovono gli atomi e nel quale qualunque grandezza può essere aumentata a piacere, incrementata all’infinito. Concorderai che uno spazio che possa essere aumentato a piacere, quando invece non può essere ridotto indefinitamente, presenta una certa asimmetria e che quest’asimmetria da un certo fastidio.
Il
tuo concetto di spazio infinitamente esteso e temporalmente eterno proprio
perché fondato sul ragionamento ontologico parmenideo rende il tuo infinito in
atto. Il tuo infinito, caro Epicuro, esiste per se, non come infinito in
potenza, fine cui tende una grandezza in espansione. È l’infinito categormatico
della scolastica, l’infinito di Georg Cantor, che ha portato alla crisi dei
fondamenti della matematica dell’inizio del novecento. Qualora si postuli la
sua esistenza, ci s’imbatte in antinomie irrisolvibili. Queste contraddizioni
dovrebbero fare concludere che l’ipotesi di partenza, l’esistenza dell’infinito
in atto, è falsa.
Per
farti capire meglio i problemi che l’infinito in atto può generare, senza addentrarmi nella moderna teoria degli insiemi infiniti, permettimi
di esporti una metafora escogitata da grande David Hilbert per illustrare il
concetto di equipotenza degli insiemi infiniti. Devi sapere che la definizione d’insieme
infinito si base proprio su questo concetto: Un insieme si dice infinito se
esiste un’applicazione biunivoca dell’insieme stesso in un suo sottoinsieme.
David
Hilbert aveva ipotizzato l’esistenza di un albergo con infinite stanze. Ci si
trovava in alta stagione e tutte le stanze dell’albergo erano occupate. A un
certo punto si presenta un nuovo cliente. L’addetto alla portineria, cui spettava il compito di sistemare gli ospiti nelle stanze, riesce a liberare una stanza
con un semplice stratagemma: spostando l’ospite della stanza numero 1 in quella
numero 2, quello della numero 2 nella 3 e così via per tutti gli ospiti dell’albergo,
libera la stanza numero 1 dove può fare accomodare il nuovo ospite.
Con
questo trucco riesce a sistemare anche un numero maggiore m di ospiti. Basta
spostare l’ospite della stanza 1 nella stanza 1+m. quello della stanza 2 nella
stanza 2+m e così via. Alla fine si liberano m stanze. Anche se arriva un
numero infinito di ospiti nuovi, il furbo addetto alla portineria riesce a
sistemare i nuovi arrivati. Basta spostare gli ospiti delle stanze nella
stanza con il numero doppio rispetto a quello attuale (dalla 1 alla 2, dalla 2
alla 4, e così via). Tutte le stanze con il numero dispari, che sono infiniti,
si liberano e quindi è possibile sistemare tutti gli ospiti.
Nella
zona intorno all’albergo ci sono altri infiniti alberghi con infinite stanze e
a causa di un evento, che David Hilbert non specifica, tutti gli alberghi tranne
il nostro devono chiudere. Tutti gli ospiti degli infiniti alberghi con
infinite stanze si presentano quindi alla portineria. Il nostro portinaio non
si perde d’animo e consegna a ognuno dei vecchi e nuovi ospiti un cartello con scritta
una coppia di numeri (n,m) in cui n indica l’albergo di provenienza e m la
relativa stanza. Il portinaio chiede poi agli ospiti di disporsi in quadrato
secondo il seguente schema:
(1,1) (1,2) (1,3) … (1,m) …
(2,1) (2,2) (2,3) … (2,m) …
(3,1) (3,2) (3,3) … (3,m) …
(4,1) (4,2) (4,3) … (4,m) …
… … … … … …
(n,1) (n,2) (1,3) … (n,m) …
… … … …
Il
portinaio può ora assegnare una stanza ad ciascun ospite secondo un criterio
ordinato, ad esempio numerando in successione gli ospiti disposti lungo le
diagonali:
(1,1)→ 1; (2,1)→ 2; (1,2)→ 3; (1,3)→ 4; (2,2)→ 5; (3,1)→ 6; (4,1)→ 7; (3,2)→ 8;…
con
il numero assegnato ora ogni ospite può recarsi alla sua stanza e alla fine
tutti gli infiniti ospiti degli infiniti alberghi trovano posto.
Come
vedi, caro Epicuro l’infinito attuale crea non poche situazioni paradossali. Ora
nell’albergo di Hilbert, che è pieno per definizione, si riescono a trovare
delle stanze vuote anzi si riescono a trovare infinite stanze vuote. Devi
ammettere che siamo difronte a una bella contraddizione. I matematici con
queste situazioni ci vanno a nozze. Loro la fanno semplice: Oh guarda, sono
inciampato in una cosa paradossale, logicamente contraddittoria, che non
dovrebbe esistere. Ma andiamo a vedere cosa succede se invece la affermo come
vera ed esistente, vediamo a cosa portano i ragionamenti successivi e
conseguenti. In questo modo sono state
sviluppate alcune delle più interessanti teorie matematiche. Per esempio i
numeri complessi sono nati proprio così. Alla domanda se esiste la radice quadrata
di numero negativo, la risposta dovrebbe essere no. Infatti, ogni numero
moltiplicato per se stesso, sia che sia positivo sia che sia che negativo, da
una grandezza positiva e quindi la radice di un numero negativo non esiste.
Nicolò Tartaglia nel XVI secolo definì, incurante della loro contraddittorietà,
le radici dei numeri negativi rischiando il rogo per eresia. Cartesio in
seguito chiamò la radice di meno uno il numero immaginario ed in seguito grazie
ai lavori di sistemazione di Eulero e quindi di Gauss assunsero piena
cittadinanza nel modo matematico con il nome di numeri complessi. Almeno i nomi
attributi a questo numeri “che non dovrebbero esistere” testimoniano
l’imbarazzo di chi li aveva proposti. I numeri complessi trovano oggi molte
applicazioni semplificando molte teorie matematiche. La loro contraddittorietà
però resta e le conseguente situazioni paradossali. Ad esempio retta y=ix, dove i è l’unità immaginaria, ha la stana proprietà che risulta
ortogonale a se stessa[13].
Ma torniamo alla questione dell'infinito. Sul concetto d’insieme infinito come insieme in corrispondenza biunivoca con un suo sottoinsieme Georg Cantor ha basato la sua teoria degli transfiniti. Una teoria che creò un sacco di problemi ai fondamenti della matematica e che David Hilbert voleva a tutti costi ridurre al suo disegno logicistico, affermando che Nessuno riuscirà a cacciarci dal Paradiso che Cantor ha creato per noi [14], senza per altro riuscirvi. Infatti le antinomie intrinseche alla teoria portate alle estreme conseguenze da Kurt Goedel, portarono alla dimostrazione dell’incompletezza dell'aritmetica. Quindi caro Epicuro, rinunciare all’infinito in atto non salva unicamente la simmetria del tutto ma ci preserva anche da contraddizioni. Che si possa fare a meno dell’infinito in atto lo dimostra la matematica intuizionista che accetta solo le dimostrazioni in cui questo non compare. Per il principio di minima complessità l’esistenza dell’infinito attuale non è necessaria.
Il mondo è discreto e finito. Godiamocelo così come è.
Ma torniamo alla questione dell'infinito. Sul concetto d’insieme infinito come insieme in corrispondenza biunivoca con un suo sottoinsieme Georg Cantor ha basato la sua teoria degli transfiniti. Una teoria che creò un sacco di problemi ai fondamenti della matematica e che David Hilbert voleva a tutti costi ridurre al suo disegno logicistico, affermando che Nessuno riuscirà a cacciarci dal Paradiso che Cantor ha creato per noi [14], senza per altro riuscirvi. Infatti le antinomie intrinseche alla teoria portate alle estreme conseguenze da Kurt Goedel, portarono alla dimostrazione dell’incompletezza dell'aritmetica. Quindi caro Epicuro, rinunciare all’infinito in atto non salva unicamente la simmetria del tutto ma ci preserva anche da contraddizioni. Che si possa fare a meno dell’infinito in atto lo dimostra la matematica intuizionista che accetta solo le dimostrazioni in cui questo non compare. Per il principio di minima complessità l’esistenza dell’infinito attuale non è necessaria.
Il mondo è discreto e finito. Godiamocelo così come è.
[1] Orazio, Epist.,
I, 4, 10
[2] Lettera
ad Erodoto, 42,10
[3] Framm.
374 Usener (in Manuale di filosofia. Dalle origini a oggi, ed. Lulu.com
p.60)
[4] Lettera
a Meneceo 123-124
[5] Lettera
a Meneceo 128-129
[6] Diehls
Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, 67A 9
[7] Lettera
ad Erodoto 36-42
[8] Diehls
Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker,
29A 26, Aristotele Physica Z9.239 b 14
[9] “Per due millenni e mezzo i paradossi di
Zenone sono stati fonte di discussione e oggetto di analisi, ma solo oggi,
grazie a una formulazione dell'analisi matematica che è stata sviluppata
nell'ultimo decennio, è possibile risolverli [...] Per molti secoli la logica
di Zenone è rimasta pressoché intatta, e ciò dimostra la tenacia dei suoi
argomenti” in William I. McLaughlin, "La risoluzione dei paradossi di
Zenone sul moto", Le Scienze, N. 317, 1994, pp. 60-66.
[10] Diogene
Laerzio, Vite e dottrine dei filosofi,
Libro VI
[11] Già
Aristotele nel commentare i paradossi di Zenone nella Fisica (Z9. 239 b9)
affermava che questi presupponevano che il tempo dovesse essere divisibile allo
stesso modo dello spazio.
[12] Nella
fisica quantistica si definisce la lunghezza di Planck ricavata a partire dalle
tre costanti fisiche fondamentali: la velocità della luce, la costante di Planck
e la costante di gravitazione universale. La teoria corrente suggerisce che una
lunghezza di Planck sia la più piccola distanza oltre la quale il concetto di
dimensione perde ogni significato fisico.
[13] La
retta y=ax ha per retta ortogonale
la retta y=-(1/a)x. Se
consideriamo la retta y=ix la sua
retta ortogonale e y=-(1/i)x.
Ma se moltiplichiamo sia numeratore che
denominatore di -(1/i) per i otteniamo -(1*i)/(i*i) che è uguale ad i. Quindi y=ix
è ortogonale a y=ix, quindi a se stessa
[14] David
Hilbert, Über das Unendliche, Mathematische Annalen, 1826, p 170