Παν είναι αριθμός, ”tutto è numero” era il motto dei Pitagorici. E per numeri si intendevano quelli interi, i numeri naturali, quelli che servono per contare, per mettere in ordine.

Disintossicato dal Continuo e dall'Infinito, lasciatemi alle spalle le teorie di Cantor e la filosofia di Parmenide, voglio assaporare il Discreto, godere del Finito. Voglio elencare, numerare, mettere in ordine.

E mettere le cose in rapporto con i numeri finalmente mi da pace.

Pagine

lunedì 11 luglio 2011

Lettera a Leucippo e Democrito


Caro Leucippo, Caro Democrito

Vi scrivo per ringraziarvi. Avete tentato di riportare la filosofia sui giusti binari. Voi del continente vi eravate lasciati sfuggire di mano la ricerca dell’essenza del mondo, dell’origine delle cose, dell’ἀρχή. Quei matti della Magna Grecia, ah les italiens…, ed in particolare quelli della scuola di Elea, avevano dato alla filosofia proprio una brutta piega:
Negare il divenire ed il moto, in virtù di cervellotici ragionamenti sull’essere o sulla divisione all’infinito.
Negare l’evidenza in virtù di ragionamenti fallaci. Fallaci proprio perché portavano ad un assurdo.
Si racconta che almeno tu, Leucippo, ad Elea ci sei andato, che li hai incontrato Parmenide e quelli della sua scuola. Spero tanto che tu gliele abbia cantate.

Basta stupidaggini sul vuoto che non esiste e sulla divisione all’infinito.

Il non essere (il vuoto) che non è, altro non è che un abile gioco di parole del maestro Parmedide.
La divisione all’infinito di Zenone sembra invece logicamente ineccepibile ma porta ai paradossi che negano il movimento. Negare il movimento è come negare lo spazio e il tempo, concetti che sono alla base della nostra esperienza; è semplicemente assurdo.
Ma se il risultato di un ragionamento che parte da una premessa (lo spazio si può dividere all’infinito) porta ad un assurdo allora la premessa del ragionamento non è vera. Quindi la divisone all’infinito non è possibile. Alla divisione quindi è posto un limite, ad un certo punto ci si imbatte in qualcosa che divisibile non lo è più, qualcosa che è α-τομος, in-divisibile.
Condivido assolutamente l’importanza che avete dato a questa proprietà della materia e che avete elevato l’indivisibile al rango di ἀρχή.
Il principio di tutto è quindi l’atomo, ατομος, l’indivisibile, la particella primordiale che non può essere più divisa in parti. E questa si muove e per muoversi ha bisogno dello spazio.
Nel primo novecento Joseph John Thomson, dopo la scoperta dell’elettrone, propose il primo modello fisico dell’atomo che però presto si rilevo tutt’altro che indivisibile. Purtroppo il nome è rimasto. Ma questo non invalida il vostro ragionamento, prima o poi se non si vuole riconsiderare la divisone all’infinito, con tutte le sue conseguenze, il processo di divisione deve avere fine. Oggi la fisica teorica postula la indivisibilità dei quark, le particelle primordiali di cui sono composti tutte le particelle subatomiche ad oggi note. Ma anche se si dovessero scoprire nuove particelle, che a loro volta sono parti dei quark, il vostro ragionamento resta sempre valido.

Ma torniamo un attimo indietro: fino a che la filosofia era rimasta nelle colonie ioniche, erano tutti rimasti abbastanza con i piedi per terra. La ricerca dell’ἀρχή si concertava su elementi come terra acqua aria fuoco. A dire il vero c’era qualcuno come Anassimandro che aveva tirato in ballo l'ἄπειρον, l’illimitato, ma era l’eccezione che confermava la regola. Gli altri filosofi, in particolare quelli di Mileto, erano considerati “naturalisti”.

Del resto anche Pitagora, che individuava l’ἀρχή nel numero, in fondo non diceva una cosa poi tanto campata in aria. Effettivamente se tutte le cose potevano essere divise in parti e se queste parti potevano essere messe in relazione tra di loro pensare che il numero fosse quello che le accomunasse non era poi così sballato. In fondo era andato molto vicino al concetto di ατομος, se tutto è numero e le cose si relazionano tra di loro attraverso i numeri allora ogni cosa può essere suddivisa in parti, in modo tale che possa essere messa in rapporto con le parti delle altre cose. Quindi ogni cosa può essere espressa come numero di parti. Più questi rapporti erano semplici, più c’era sintonia tra le cose. Ma la concezione di Pitagora che tutte le cose potevano essere messe in relazione attraverso il rapporto (λόγος) numerico aveva vacillato quando venne dimostrata la incommensurabilità della diagonale del quadrato rispetto al suo lato. Praticamente era stato dimostrato che non era possibile trovare un rapporto numerico finito che mettesse in relazione le due parti del quadrato. La scuola pitagorica purtroppo non aveva usato questo risultato per fermare una volta per tutte le speculazione sulla divisione all’infinito, attestando le contraddizioni che nascevano quando si consideravano forme geometriche ideali divisibili all’infinito (cioè non composte da atomi) per relegare queste a meri costrutti ausiliari. Erano state, purtroppo, poste le basi per una dicotomia tra “ragione” ed “esperienza” e quindi del concetto di “idea” non come attributo del reale ma come realtà in sé. Le conseguenze nefaste non si fecero attendere. Infatti sempre dalle parti della penisola italica, in Sicilia, Empedocle di Agrigento riteneva che i quattro elementi primordiali, terra acqua aria e fuoco, l’ ἀρχή della scuola di Mileto per capirci, in realtà si fondevano insieme in una sfera perfettamente omogenea:
ἀλλ’ ὅ γε πάντοθεν ἶσος <ἑοῖ> καὶ πάμπαν ἀπείρον 
Σφαῖρος κυκλοτερὴς μονίηι περιηγέι γαίων   (Diels-Kranz Fr. B 28)
Ma dappertutto eguale a se stesso e assolutamente senza limite è lo Sfero circolare, che gode della sua solitudine sferica. 
Qui la sostantivizzazione dell’idea e quindi la sua personificazione prede corpo. Lo “sfero” (Σφαῖρος con la sigma maiuscola!) gode! Il mondo delle idee, parallelo al nostro mondo, ormai è aperto a qualsiasi boiata.
Questi tipi di “ragionamenti” fioccavano ormai da tutte le parti culminando nella negazione totale dell’esperienza della scuola eleatica. In nome della ragione si negavano le più semplici osservazioni basate sulla “fallace” esperienza, che era relegata ormai a pura apparenza. Il mondo vero era quello delle “idee”.
Cari amici, per fortuna ci avete pensato voi, avete mostrato che esiste una via semplice per spiegare il mondo, che il finito è sufficiente e che non è necessario introdurre "il mondo delle idee". So che non è servito a molto, l’idealismo imperverserà nella storia dell’umanità ed in nome delle “idee” si giustificheranno le più terribili nefandezze, logiche e non.

Grazie comunque

Federico 



domenica 15 maggio 2011

Il piacere del contare


Nel giugno 2008 ho partecipato ad un corso tenuto dal Prof Paolo Zellini, professore di Analisi Numerica presso l’Università di Roma Tor Vergata e autore del famoso “Breve storia del infinito” di cui Italo Calvino disse: “Tra i libri italiani degli ultimi anni quello che ho più letto, riletto e meditato è la Breve storia dell'infinito di Paolo Zellini”

 

Il corso dal titolo "Infinito e finito: dalla crisi dei fondamenti alla scienza del calcolo" tracciava il precorso del concetto di infinito fino alla scoperta delle antinomie nate dal tentativo di trovare una sistemazione della teoria degli insiemi che tenesse conto anche degli insiemi infiniti e che agli inizi del 900 avevano messo in crisi la matematica. Nel proseguo il corso poi, trattava le questioni del calcolo finito, quello basato sui numeri interi, quello per intenderci usato oggi dai calcolatori.

 

Fu durante il corso che definitamente capì che il concetto di infinito attuale era intrinsecamente incoerente e che l’aritmetica dei numeri interi era la sola matematica coerente.

 

A dire il vero Zellini, non era proprio di quest’opinione, anzi vedeva in certi problemi numerici, come l’inversione delle matrici mal condizionate, un limite teorico del calcolo digitale. Effettivamente un problema numerico non poteva sempre essere risolto con una precisone prestabilita, anche aumentato in modo appropriato il numero delle cifre usate per rappresentare i numeri all’interno dell’elaboratore elettronico e/o aumentando i cicli di iterazione. Infatti all'aumentare del numero di cifre usato per rappresentare i numeri all'interno di un elaboratore, la precisione del risultato certamente non peggiora ma non si può essere certi che converga verso la precisone desiderata. Una situazione simile si ha nelle serie di somme infinite convergenti. Infatti anche se alla somma si aggiungono infiniti contributi di volta in volta più piccoli questa può converge ad un numero finito e quindi fissato un limite qualunque non si può affermate che la serie delle somme infinite lo possa raggiungere.

 

In realtà durante il corso non capì se Paolo Zellini favorisse la matematica del continuo o quella del discreto. Da vero intellettuale forse non voleva prendere posizione.

 

Io invece, che avevo appena letto “l’illusione di Dio” di David Dawkins, avevo accolto l’appello dell’autore agli intellettuali di smetterla di definirsi, al più, agnostici (coloro che non sanno) o di essere riluttanti a prendere posizioni più marcate quando è possibile applicare il Rasoio di Occam, il principio metodologico che suggerisce, al fine di decidere tra più ipotesi possibili, di scegliere quella più semplice. Infatti i problemi logici e le antinomie conseguenti all’introduzione di insiemi con infiniti elementi erano a mio avviso molto più gravi che non i problemi di convergenza di certi algoritmi numerici.

 

Decisi quindi di prendere parte in maniera definitiva per il discreto, per il finito lasciandomi alle spalle “il paradiso che Cantor ha costruito per noi", come la aveva chiamato David Hilbert,

 

Ma se Paolo Zellini da un lato mi aveva privato del piacere delle elucubrazioni sull’infinito, dall’altro, aveva in me risvegliato l’interesse della matematica del finito che in fondo era più in sintonia con il resto della mia “Weltanschaung”. Mi ero scrollato di dosso gli ultimi rimasugli idealisti abbracciando in pieno la filosofia atomista. Avevo finalmente compreso a fondo la lezione del grande Epicuro.

 

Durante il corso Paolo Zellini ci raccontò di un passo dell’Odissea di Omero dove si associava la numerazione alla tranquillità del sonno. Tornato a casa, dopo il corso, mi misi a cercare e lo trovai nel IV libro dell’Odissea:

 

Il IV libro racconta di Telemaco che si era recato a Sparta da Menelao per chiedergli notizie del padre Ulisse. Menelao gli risponde raccontando un episodio del suo νόστος, il viaggio di ritorno da Troia, quando era finito in Egitto sull’isola di Faro, da dove non riusciva di ripartire a causa delle avverse condizioni del mare e dei venti.

Errando per l’isola Menelao incontrò Eidiotea figlia dell’antico dio marino Proteo, che vedendolo disperato decise di aiutarlo. Eidodea gli svelò come catturare nel sonno il padre Proteo, che ogni giorno si addormentava nella sua grotta in mezzo alle sue foche dopo avere accuratamente contate. Proteo una volta catturato gli avrebbe indicato la via per tornare a Sparta e gli avrebbe anche raccontato quello che nel frattempo era successo nella sua reggia.

Su indicazione di Eidotea Menelao e i suoi compagni si travestirono coprendosi con pelli di foca eludendo così i controlli di Proteo riuscendo ad entrare nella grotta. Proteo appena addormentato viene sopraffatto da Menelao ed i suoi compagni rivelando a Menelao il destino suo e di altri eroi achei tra i quali Aiace e Odisseo.

 

Odissea IV libro versi 450-453

 

ἔνδιος δ' ὁ γέρων ἦλθ' ἐξ ἁλός, εὗρε δὲ φώκας

ζατρεφέας, πάσας δ' ἄρ' ἐπῴχετο, λέκτο δ' αριθμόν.

ἐν δ' ἡμέας πρώτους λέγε κήτεσιν, οὐδέ τι θυμῷ

ὠΐσθη δόλον εἶναι· ἔπειτα δὲ λέκτο καὶ αὐτός.

 

 

In seguito gli stessi versi nella bellissima traduzione dell’Odissea di Ippolito Pindemonte (IV 565-569)

 

Uscio sul mezzogiorno il gran vegliardo

E trovò foche corpulente e grasse,

Che attento annoverò. Contò noi prima,

Nè di frode parea nutrir sospetto.

Ciò fatto, ei pur nella sua grotta giacque.

 

Ma soffermiamoci sull’ultima parte del secondo verso: λέκτο δ' αριθμόν. Qui compare la parola λέκτο che è, nella forma poetica, l’aoristo indicativo terza persona singolare di λέγο.  λέγο ha due significati ( raccogliere, enumerare) oppure (dire, parlare). Infatti λόγος  che ha la stessa radice vuol dire il computare, il calcolare, la ragione, il rapporto oppure anche parola, discorso. Questo doppio significato ha portato un po’ di confusione nelle traduzioni dei vangeli dove la parola λόγος imperversa e non si sa se tradurla come “ragione” o “parola” (di Dio). In questo caso non c’è dubbio l’accostamento con αριθμόν, (numero) indica l’azione del contare.

 

Nell’ultimo verso ritroviamo di nuovo λέκτο, ma questa volta si tratta del aoristo indicativo terza persona singolare di λέχο giacere, dormire (la stessa radice si ritrova nel latino lectus da cui l’italiano letto, nel gotico ligan da cui il tedesco liegen)

 

E’ un caso? oppure Omero ha voluto creare un collegamento tra i due concetti.  I due λέκτο si trovano inoltre accentati nella stessa posizione nella struttura ritmica della metrica dell’esametro, esaltandone cosi la corrispondenza.

Ma indipendentemente dal fatto che Omero abbia voluto, in modo così sottile, collegare coscientemente i due concetti o che si tratti di un’interpretazione a posteriori dell’esegesi omerica in nessun modo si può negare l’incredibile bellezza e l’armonia di questi versi.  

Contare, mettere in relazione, mettere in ordine, elencare, strutturare, ragionare o per dirlo in termini matematici: mettere in corrispondenza biunivoca con l’insieme dei numeri naturali da pace.

 

Mi piace pensare che questo sia dovuto al fatto che contando, ci si collega, attraverso il processo di corrispondenza con l’insieme dei numeri naturali, all’essenza stessa dell’essere, all’αρχή pitagorico: il numero. E, squarciato per un attimo il velo che lo nasconde, l’anima, contemplando, appagata si rilassa:

 

λέκτο δ' αριθμόν… ἔπειτα δὲ λέκτο καὶ αὐτός

 

Contare, poi giacere, dormire

 

 

 

lunedì 18 aprile 2011

Lettera a Zenone



Caro Zenone,
mi sei sempre stato simpatico, non solo per i tuoi divertenti paradossi, ma soprattutto per la strenua difesa delle opinioni del tuo maestro Parmenide. 
Opinioni difficili da sostenere poiché Parmenide negava la più semplice delle esperienze: il movimento. Il tuo maestro, attraverso il ragionamento ontologico sulla non esistenza del non essere, aveva affermato l’inesistenza del vuoto e quindi del movimento. Infatti quest’ultimo senza vuoto non poteva avvenire, poiché se lo spazio è pieno e senza vuoti il movimento non è possibile. I corpi stanno, uno attaccato all’altro, senza vuoti tra di loro, aggregati come in un unico blocco all’interno del quale nulla si può muovere.
Tu, per dare man forte al tuo maestro, avevi inoltre  tentato di dimostrare l’impossibilita del moto attraverso un ragionamento indipendente basato sui paradossi generati dalla divisione all’infinito: Achille che non raggiunge la tartaruga, e poi, quello che a me piace di più, la freccia che non raggiunge il bersaglio. Infatti questa deve, prima di raggiungere la meta, arrivare a metà del percorso e prima ancora a metà della metà e così via all’infinito. La freccia non partirà mai dovendo percorrere infiniti segmenti in un tempo finito. 
Caro Zenone, quando mia moglie, in preda all’astinenza da nicotina, mi chiedeva di andarle a comprare le sigarette, ho tentato più volte, per evitare l’interruzione di qualche oziosa attività, di usare il tuo ragionamento per farle capire che anche se avessi voluto arrivare fino dal tabaccaio non avrei mai più potuto raggiungerlo dovendo prima arrivare a metà strada e prima ancora a metà della metà e così via. 
Purtroppo mia moglie, che come la maggior parte delle donne ha i piedi saldamente per terra, non si faceva incantare da ragionamenti, ancorché rigorosi, che confutano l’esperienza.
Il ragionamento ontologico del maestro è sempre stato un po’ debole visto che giocava sui diversi significati del verbo essere. Inoltre la sostantivazione del verbo non implica che il così generato sostantivo esegua necessariamente l’azione descritta dal verbo e quindi “il non essere non è” è in realtà una forzatura
Il tuo ragionamento a prima vista sembra più difficile da confutare.
Sembrerebbe infatti, che la somma infinita di parti, ancorché piccole, è infinitamente grande e che quindi la freccia impiegherà un tempo infinito ad raggiungere il bersaglio, supposto che lo spazio da percorrere sia suddiviso in infinite parti attraverso la procedura di bisezione da te proposta.
Ma la somma di infiniti addendi, mio caro Zenone, è un problema insidioso.
Prendiamo per esempio la somma infinita 1+(−1)+1+(−1)+···, L’abate Guido Grandi (1671-1742) analizzandola trae conclusioni a dir poco temerarie:
Spostando le parentesi, da essa si ottiene sia 0 = (1 − 1) + (1 − 1) + (1-1)+….. che 1 = 1 + (−1 + 1) + (−1 + 1) + ··· 
Da cui segue 0 = 1 ... ma allora l’idea della creazione ex nihilo risulterebbe plausibile!
Ma, caro Zenone, come già detto, le somme infinite sono insidiose. Qui l’abate fa un uso disinvolto della proprietà associativa della somma, che pero non vale in generale nel caso delle somme infinite.
Ancora più insidie si nascondono nelle somme di infiniti addendi sempre più piccoli. Infatti, queste serie a volte hanno somma infinita e a volte no.
Nicola d’Oresme (XIV sec.) mostra che la serie armonica:
H(n)=1/2 +···+1/n +… ha somma infinita. 
Infatti (1/2)+(1/3+1/4)+(1/5···+1/8)+··· ≥ 1/2 + 1/2 + 1/2 +··· → +∞.
La dimostrazione parte dall’idea che, raggruppando opportunamente più termini consecutivi della serie armonica, si può costruire una sottosuccessione della successione che manifestamente diverge.
A partire dal secondo termine, raggruppiamo i termini della serie armonica in blocchi costituiti da 1, 2, 4, 8, . . . addendi, in modo che l’ultimo termine di ciascun blocco sia del tipo 1/2k :

(1/2) 
+ (1/3+1/4)
+ (1/5+1/6+1/7+1/8) 
+ ......

In ciascuno dei blocchi entro parentesi l’ultimo addendo è il più piccolo, dunque le quantità entro parentesi sono tutte ≥ 1/2. Infatti il k-esimo blocco contiene 2k-1 addendi tutti maggiori o uguali a 1/2k e quindi dato che 2k-1/2k = ½ 
Che somme infinite davano un risultato finito l’aveva probabilmente intuito già Eudosso di Cnido (IV sec. a.C.) a cui viene attribuita da Euclide la dimostrazione, con il metodo dell’esaustione, che il volume di un cono e la terza parte del volume del cilindro con la stessa base.
Questo metodo basto sulla somma di infinite aree geometriche può essere usato per dimostrare che la freccia arriva al bersaglio infatti:
La somma della serie geometrica: G(n)=1/2+1/4+1/8 ….. per infiniti elementi è uguale a 1.


come si vede dal disegno, si parte dal primo triangolo, che ha un area equivalente alla metà del quadrato e si aggiungono quindi  triangoli di area grande la metà del triangolo precedente. Se si immagina di continuare questo processo all’infinito si vede che l’intera area del quadrato viene riempita e quindi si può affermare che la somma infinita delle aree sia uguale ad 1. Quindi la somma di infiniti elementi può essere finita e quindi la freccia colpisce il suo bersaglio.
Caro Zenone, sembrerebbe che non hai potuto aiutare il tuo maestro Parmenide più di tanto. Comunque come avrei notato trattare le somme infinite non è cosa tanto semplice, anzi ogni volta che c’è di mezzo l'infinito bisogna andarci coi piedi di piombo. Comunque hai messo un dito nella piaga. Ne discuteranno filosofi e matematici per i prossimi millenni, distinguendo sottilmente tra i tipi di infinito: attuale o potenziale, categormatico o sincategormatico, con la cardinalità dei numeri naturali o con la cardinalità del continuo. 
Alla fine è risultato un gran casino. Il tentativo di includere gli insiemi infiniti in una teoria assiomatica degli insiemi ha prodotto addirittura affermazioni che sono sia coerenti, che non coerenti, all’interno della teoria stessa. Le fondamenta della matematica hanno per la prima volta subito un sussulto e alcuni matematici chiamati intuizionisti, a quali anche io mi associo, hanno rifiutato l’uso disinvolto dell’infinito attuale, rifondando la matematica e riportandola a trattare solo di quei enti che la mente può costruire, facendo a meno del concetto di infinito attuale o degli insiemi a cardinalità infinita. 
La somma della serie geometrica non “è” uguale a uno ma la successione delle somme parziali all’aumentare degli elementi si avvicina ad uno, senza pero mai raggiungerlo un quanto la somma “infinita” non esiste non essendo “costruibile”.
Caro Zenone, il tuo tentativo di “ragionare” con l’infinito ha generato un paradosso. Questo in parte è stato risolto utilizzando un formalismo che trattava insiemi con infiniti elementi, ma quando si è cercato di costruire una teoria degli insiemi che tenesse conto anche di quelli con cardinalità infinita sono nati altri paradossi, che questa volta però non si sono rilevati risolvibili. Il diavolo è uscito dalla porta per rientrare dalla finestra. 
Quindi, caro Zenone, bisogna fare attenzione, l’uso improprio del concetto di infinito è pericoloso, e come ben sai non solo in logica. Affermando l’infinito si creano paradossi che sembrano confutare l'esperienza comune. Del resto anche lo scopo dei tuoi ragionamenti era di evidenziare una differenza sostanziale tra il mondo della ragione e quello della esperienza. 
Sei quindi anche tu colpevole, come Parmenide, del fatto che l’occidente ha dovuto subire due millenni di delirio idealista, da Platone ai padri della Chiesa fino a Kant ed oltre. Voglio pensare che non era tua intenzione appiopparci tanto e quindi

ti saluto con simpatia

Federico.